di R. Pinotti e M. Blondet
Gli «specialisti» derisero Heinrich Schliemann, il commerciante tedesco che meno di un secolo fa pretese di andare alla ricerca dell'antica Troia prendendo per buone le indicazioni dell' Iliade e dell'Odissea, che secondo gli studiosi erano un miscuglio di miti e leggende senza fondamento. Ma fu proprio Schliemann, il «dilettante», a scoprire Troia.
Forse è proprio quello l'atteggiamento giusto: condurre le ricerche avendo
sott'occhi i testi antichi, e sforzarsi di prenderli sul serio anche quando ciò
che narrano appare inverosimile. È quel che hanno fatto nel 1978 uno studioso
di sanscrito, David Davenport, cittadino britannico nato in India, e il
giornalista italiano Ettore Vincenti, dopo la lettura del Ramayana.
Poema epico e contemporaneamente testo sacro indù, centomila strofe (è il più
prolisso libro di poesia esistente), il Ramayana è, come nel resto l' altro
poema nazionale, il Mahabharata, un confuso racconto di guerre e di battaglie
avvenute in un'antichità indefinita e leggendaria lungo la valle dell'Indo.
«La cosa che più colpisce nella lettura è che queste battaglie non sono combattute con lance e spade», racconta Ettore Vincenti. Eccone un esempio: il brano è tratto dal Mahabharata:
«Il valoroso Aswatthaman (un personaggio), risoluto, toccò l'acqua e invocò l'arma Agneya (da Agni, «fuoco»). Puntandola verso i suoi nemici visibili e fuori vista, sparò una colonna esplosiva che si aprì in tutte le direzioni e provocò una luce brillante come fuoco senza fumo, a cui seguì una pioggia di scintille che circondò completamente l'esercito dei Partha».
Ed ecco gli effetti dell'arma:
«I quattro punti cardinali furono coperti di buio.., un vento violento e
cattivo cominciò a soffiare. Il sole sembrò girare in senso contrario,
l'universo sembrò febbricitante. Gli elefanti, scorticati dal calore, si misero
a correre terrorizzati».
Persino l'acqua si mise a «ribollire e gli animali acquatici mostrarono
un'intensa sofferenza».
Qualche centinaio di versi più oltre, il Mahabharata descrive gli effetti di
un'altra arma, della «Narayana»:
«I guerrieri... furono visti togliersi le armature e lavarle nell'acqua».
«Queste descrizioni», dicono Davenport e Vincenti «richiamano alla memoria in
modo impressionante gli effetti di esplosioni atomiche e di bombe al fosforo».
«In realtà», spiega David Davenport «nel Ramayana vengono descritte parecchie
armi che, per quanto possano sembrare fantastiche, somigliano molto ad armi
modernissime. Il glossario delle armi del Mahabharata stilato dall'illustre
sanscritista indiano Hari Prasad Shastri parla per esempio dell'arma Kamaruchi,
«freccia intelligente, che va dove vuole», in cui senza troppa fantasia si può
vedere un missile telecomandato. O della Murchchdhana, «arma che causa la
temporanea sospensione di tutte le sensazioni»; forse un gas nervino?
E l'arma Nadana, «che produce gioia», non potrebbe essere un gas esilarante? E
la Shabdaveditva, «freccia che segue i suoni ed è capace di colpire gli oggetti
nascosti», non può ricordare un missile capace di orientarsi automaticamente
dietro le onde sonore degli aerei nemici?».
Sì, perché nei testi indù si parla abbondantemente di aerei. «Il termine sanscrito è vimana», spiega Davenport «che letteralmente significa 'uccello artificiale abitato'. I libri sacri dicono che i vimana possono volare e li descrivono come vere e proprie macchine. Vien detto anche che al loro interno 'non fa né troppo caldo né troppo freddo, l'aria vi è temperata in ogni stagione': è impossibile non pensare alla climatizzazione delle cabine dei nostri aerei».
Gli increduli possono scuotere il capo. David Davenport ed Ettore Vincenti
hanno fatto qualcosa di più costruttivo. Nel Ramayana (Uttara Kanda, cap. 81)
si parla di un rishi (un «sapiente») che, adirato contro gli abitanti di una
città chiamata Lanka, dà un preavviso di sette giorni; al termine dei quali
promette «una calamità, che cadrà come fuoco dal cielo». Ebbene: testo sacro
alla mano, i due si sono recati in India per identificare questa Sodoma
orientale.
Davenport e Vincenti ritengono, per motivi linguistico-geografici che sarebbe
troppo lungo spiegare, di aver identificato l'antica Lanka («isola») nella
città di Mohenjo-Daro, centro della «civiltà di Harappa», fiorita (e
improvvisamente estinta) attorno al 2000 avanti Cristo. Mohenjo-Daro, nome
moderno (significa «luogo della morte») era chiamata qualche secolo fa «Isola»
(Lanka), perché era circondata da un braccio secondario del fiume Indo, oggi
prosciugato. Gli scavi archeologici, condotti sopratutto dai britannici, una
trentina d'anni fa, hanno messo in luce una realtà misteriosa e sconvolgente.
«Gli ultimi abitanti di Mohenjo-Daro sono periti di una morte subitanea e
violenta», ha scritto l'archeologo Sir Mortimer Wheeler. Nelle macerie della
città sono stati trovati 43 scheletri evidentemente il grosso della popolazione
aveva fatto in tempo a sfollare): si tratta di persone colte da una morte
istantanea mentre attendevano alle loro faccende. Una famigliola composta da
padre, madre e un bambino, è stata trovato in una strada, schiacciata al suolo
mentre camminava tranquillamente. «Non si tratta di sepolture regolari», ha
scritto l'archeologo John Marshall, «ma probabilmente del risultato di una
tragedia la cui natura esatta non sarà mai nota». Un'incursione di nemici è
esclusa, perché i corpi non presentano ferite da arma bianca. In compenso, come
ha scritto l'antropologo indiano Guha, «si trovano segni di calcinazione su
alcuni degli scheletri. È difficile spiegare questa calcinazione...». Tanto più
che gli scheletri calcinati sembrano meglio conservati degli altri.
È un mistero per cui Davenport e Vincenti hanno arrischiato una spiegazione, di
cui hanno reso minutamente conto in un libro che hanno scritto insieme: 2.
000 a. C. : distruzione atomica (Sugarco editore, Milano).
«L'antica Lanka è stata spazzata via», sostengono «da una esplosione
assimilabile ad una deflagrazione nucleare». Le prove? «Abbiamo individuato
chiaramente sul posto l'epicentro dell'esplosione», spiega Davenport. «È una
zona coperta da detriti anneriti, resti di manufatti di argilla. Abbiamo fatto
esaminare alcuni di questi detriti presso l'Istituto di Mineralogia
dell'Università di Roma: risulta che l'argilla è stata sottoposta ad una
temperatura altissima, più di 1.500 gradi, per qualche frazione di secondo. C'è
stato un inizio di fusione subito interrotta. È escluso che un normale incendio
o il calore di una fornace possano produrre questo effetto.
Inoltre, le case dell'antica città sono state danneggiate con tanto minor
gravità, quanto più sono lontane dall'epicentro. Nei pressi dello scoppio, gli
edifici (in mattoni, con piani superiori in legno che sono andati completamente
distrutti) sono stati rasi al suolo. Un po' più lontano restano muretti alti un
metro e mezzo; nei punti più lontani della città le mura rimaste in piedi
superano i tre metri».
È l'inequivocabile effetto di un'esplosione avvenuta a qualche metro da terra. «L'ipotesi che il disastro sia stato provocato da un'esplosione di tipo nucleare», dice Ettore Vincenti «è rafforzata da una leggenda che abbiamo raccolto da un abitante del luogo. Egli ci ha raccontato che "i signori del cielo", adirati con gli abitanti dell'antico regno dove ora c'è il deserto, hanno annientato la città con una luce che brillava come mille soli e che mandava il rombo di diecimila tuoni. Da allora chi si arrischia ad avventurarsi nei luoghi distrutti viene aggredito da spiriti cattivi che lo fanno morire».
David Davenport ed Ettore Vincenti non si nascondono che la loro ipotesi
appare del tutto inverosimile. «È difficile credere», dicono «che una civiltà
di quattromila anni or sono, capace di costruire missili, 'macchine volanti' e
bombe atomiche, sia scomparsa senza lasciare tracce. Una civiltà tecnologica
sarebbe anche una civiltà industriale: quindi una civiltà che lascia montagne
di rifiuti e di rottami. Anche fra quattromila anni i resti della nostra
attuale cultura tecnologica dovrebbero essere visibili: se non altro per la
grande quantità di macerie, ruderi di cemento, spazzatura di vario genere.
Niente di tutto quanto si trova nella città di Mohenjo-Daro : la quale era una
città prospera ed avanzata, con pozzi disposti razionalmente ed un progredito
sistema di fognature, ma certamente non inserita in un sistema tecnologico
paragonabile al nostro. Le poche armi ritrovate sono lance e spade, non certo
fucili e pistole».
E allora? «Si impone l'ipotesi extraterrestre», dice Vincenti. «I 'signori del
cielo' che distrussero l'antica Lanka erano forse esseri giunti da 'altrove'.
Colonizzatori spaziali che si sono comportati come tutti i colonizzatori: con
brutalità e prepotenza. Forse, aggrediti dagli abitanti di Mohenjo-Daro, hanno
voluto infliggere loro una punizione esemplare. A suon di bombe atomiche».
Padroni di non credere a quest'ipotesi.
Ma gli indizi raccolti da Davenport e Vincenti sono numerosi e impressionanti.
(Fonte : Il Giornale dei Misteri n. 214)